In Italia neanche un posto da bidella, ad Harvard guido la banca dei cervelli

Spesso, anzi, spessissimo si sente parlare di fuga di cervelli è la storia Sabina Berretta è proprio una di queste, ma rispetto alle altre storia ha qualcosa di diverso, e si perchè se in italia non è riuscita neanche a fare la bidella oggi che ha 56 anni, è la scienziata italiana che dirige l’Harvard Brain tissue resource center del McLean Hospital di Boston, la più grande banca dei cervelli del mondo, un fulgido esempio di come il nostro paese non è in grado di trattenere i talenti e neanche di riconoscergli i giusti meriti.

La storia di Sabina Berretta è quella di una giovane italiana come tante che fino da giovane sognava di fare la scienziata nel paese in cui è nata in Italia, ma dopo molti anni di ricerche non pagate, di stage e tirocini che non hanno portato a nulla di buono, ha deciso che l’unica via per mantenersi agli studi era un posto da bidella in una scuola, ma purtroppo anche questa aspettativa lavorativa è fallita, a quel punto l’unica via percorribile per lei era partire per l’estero, per l’America, oggi quella giovane italiana ha 56 anni è non è più tornata nel paese in cui la vista nascere, ma ecco la storia di Sabina Berretta.

Da dove è partita? Da dove viene ci parli un po di lei…

“Sono siciliana, vengo da Catania. Dopo il liceo volevo studiare filosofia, ma sapevo che non mi avrebbe permesso di sopravvivere: e siccome ero una sportiva mi iscrissi all’Isef. Insegnando ginnastica, pensai, avrò tempo per studiare filosofia, prendere una seconda laurea. Fu preparando la tesi dell’ultimo anno che scoprii la mia vocazione. Il professore che insegnava fisiologia all’Isef era un docente di medicina. Entrai nel suo laboratorio dove facevano studi sul cervelletto. Capii subito che era quello che m’interessava davvero. Misi da parte lo sport e cominciai a studiare medicina a Catania”.

Continuai a fare ricerca in quel laboratorio e mi laureai con lode in neurologia. Solo che le ricerche nessuno me le pagava: ero una volontaria. E anche da laureata non c’era posto per me. In quell’istituto si liberava però un posto da bidello: pensai che poteva essere un modo per guadagnare dei soldi continuando a studiare. Dopo aver spazzato i pavimenti, insomma, potevo andare in laboratorio e proseguire le ricerche con uno stipendio su cui contare. Non vinsi nemmeno quel posto: eravamo troppi a farne richiesta”.

La studentessa che vinse il concorso era laureata?

“Certo, adesso è una stimata ricercatrice, ma ha cominciato con un posto da bidella. Io invece ebbi fortuna. Vinsi una borsa del Cnr per studiare un anno all’estero. Scelsi il Mit di Boston. Andò bene: scaduta la borsa, ero stimata e mi tennero. Era il 1990 e da allora non sono più tornata”.

Lei dunque partì con una borsa di formazione italiana: ma fu l’America a darle la possibilità di continuare i suoi studi.
“Succede continuamente. Gli studenti approdano in America da tutta Europa per fare quei lavori di laboratorio che in America non vengono pagati. I più bravi vengono assunti: e siccome a casa non hanno prospettive, molti fanno come me e restano”.

Una volta andata in America cosa ha fatto?

“Proposi il mio lavoro ad Harvard: studiavo gli effetti della schizofrenia sul cervello e lì c’era la banca dati più importante del mondo. Avevo bisogno di lavorare sul tessuto umano per far progredire le mie ricerche perché fino ad allora avevo analizzato solo modelli animali. Prima ho lavorato con la direttrice del centro, poi sono diventata una ricercatrice indipendente, con budget e staff. Quando la direttrice è andata in pensione, ero quella che conosceva meglio l’archivio dei cervelli: darmi il suo posto fu la scelta più ovvia”.

Quante persone dirige?

“Sette nel mio laboratorio, dieci nella banca dei cervelli. Staff di media grandezza, ce ne sono di più ampi. Studiamo la schizofrenia e i disturbi bipolari”.

Sono malattie che lasciano un segno sulla materia grigia?

“Certo, tutte le malattie segnano il cervello. I malati di Alzheimer, per esempio, hanno la corteccia atrofizzata. D’altronde a marcare il cervello non sono solo le malattie: ogni esperienza lascia il segno, così come il tempo che passa. Il cervello muta ad ogni nuova informazione. Certo, qualcosa è visibile a occhio nudo, qualcosa solo al microscopio. Come la depressione: difficile da vedere, ma lascia il segno”.

Per eseguire questo genere di ricerche è essenziale conoscere prima la patologia?

“No, anzi, lavorare su materiale non malato ci aiuta a fare comparazioni. Di solito intervistiamo i donatori e le loro famiglie, ma sono interviste mediche, non parliamo, insomma, di sentimenti. Lo faremo: stiamo studiando come gestire la privacy di queste persone. Solo che chi non è malato è meno motivato a donare. Pensa che non serva: e d’altronde perfino la medicina parla ancora di malattia fisica e malattia mentale. Ma anche la mentale è fisica. Per questo è così importante avere nuove donazioni”.

Quante ne ricevete ogni anno?

“Circa centocinquanta. Troppo poche per gli strumenti incredibili che abbiamo. Ora possiamo fare cose davvero straordinarie
come catalogare le cellule una ad una. Grazie ai nuovi strumenti e ai nostri studi sconfiggeremo nuove malattie. Ma abbiamo poco tessuto per gli esperimenti. Aiutateci: ce ne serve di più”. Donate il vostro cervello alla scienza, insomma: anche se non siete un cervello in fuga.

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